RISACRALIZZARE LA CULTURA
CON SGUARDO CONTEMPORANEO
— La visione —
L’Italia possiede un patrimonio archeologico, artistico e paesaggistico rilevante e inestimabile. Ma non ha le risorse economiche, la volontà politica e la visione per riuscire pienamente a tutelarlo e farne strumento di rilancio del Paese.
Manca, questo è il punto, una strategia verticale per ciascun settore della cultura e, assieme a questa, una strategia orizzontale che guardi a cultura e creatività in una chiave sistemica, integrata come ci indica l’Unione Europea, capace di correlare in una visione unica i diversi settori e ragionare in termini di filiera, dove la cultura è punto di partenza o di arrivo di processi complessi e di una molteplicità di attori, attività industriali, percorsi cognitivi.
Questa difficoltà si rispecchia ed è figlia di una mancanza di visione sul rapporto tra cultura, paesaggio e futuro, quindi di un progetto pubblico sul futuro delle città e dei territori che passi attraverso il riuso, la traduzione, dei nostri beni e spazi, e attraverso lo sviluppo di nuova arte, quindi la creazione di spazi ed idee che promuovano la creatività e l’innovazione. Insomma un’idea di contemporaneo.
Troppo a lungo si è perpetuato nel nostro paese uno scollamento tra conservazione e valorizzazione, come se fossero due cose separate, anziché indistricabili. E nel puntare sulla conservazione si è sottratta forza a un progetto di politica culturale innovativo e identitario.
La custodia del passato non ha, però, come unico obiettivo la conservazione. L’arte antica ritrova una sua ragion d’essere proprio grazie alla ricerca storico-artistica più innovativa. La produzione culturale che si misura con la sperimentazione e il contemporaneo riconnette memoria e innovazione, recupera la tradizione per dare vita a una rappresentazione del presente e a un immaginario futuro, contribuendo in maniera determinante allo sviluppo della comunità.
Troppo a lungo una visione statica dell’archeologia e dei musei ha creato una frattura tra i cittadini e il paesaggio culturale, finendo per allontanare i giovani – e non solo loro – dagli spazi istituzionalmente dedicati alla fruizione della cultura. Non c’è condivisione sull’“uso pubblico della storia” (Gallerano, 1995), del passato. Se nel peggiore dei casi c’è rimozione, nel migliore c’è senso di separazione, incapacità di integrare il passato nella quotidianità[1]. È una frattura tra cittadino e senso della cosa pubblica, come se i benefici di cui ogni giorno godiamo non siano frutto di un progetto collettivo tutelato da chi attua e tutela i principi costituzionali.
E’ proprio in questo punto che si riassume senso e fine dell’intervento pubblico. Perché è senz’altro vero che i dati sulla fruizione della cultura sono importanti, e bene fa il Ministro Franceschini a fare dell’incremento degli accessi uno dei cavalli di battaglia del suo operato, ma l’incremento della domanda è anche il fine di qualunque imprenditore privato – o soggetto pubblico che si comporti come un buon padre di famiglia – mentre il ruolo distintivo dell’amministratore pubblico è più legato al “come” che al “quanto”. Garantire la cultura per tutti è un passaggio fondamentale, ma garantire per tutti una cultura in grado di incrementare le possibilità individuali di crescita e conoscenza del mondo, e quindi di libertà, è un obiettivo irrinunciabile e proprio solo dell’amministratore pubblico.
La strada è quindi quella di avviare una politica dei beni culturali, del paesaggio, in cui l’amministratore prenda posizione, esprima una sua visione del patrimonio e del suo “senso contemporaneo” [2], cioè del suo legame con la vita degli uomini e delle donne. Tema cruciale che riguarda il centro della città ma anche, e soprattutto, le periferie, dove la “diversità culturale” della rovina non riesce a manifestare una propria identità trasformandosi, troppo spesso, in luogo di degrado ambientale e sociale. E che riguarda anche il rapporto tra cultura e paesaggio, oggi più che mai cruciale per la nostra stessa sopravvivenza.
L’enfasi dell’investimento pubblico sulla conservazione[3] nell’assenza di una visione integrata di tutela[4] diviene quindi, di fatto, mancanza di progettazione, incapacità di esprimere una propria identità culturale se, con Steiner (1984, p.417) «una cultura è una sequenza di traduzioni e di trasformazioni di costanti (la traduzione tende sempre alla trasformazione)» . Si sottolinea in questo modo la responsabilità dell’amministratore pubblico nell’interpretare il passato[5] e progettare il futuro. Da qui la necessità di elaborare un’idea di contemporaneo, di come vogliamo costruire le nostre città del futuro e tutelare i paesaggi, di come la cultura può diventare la strada e il motore di questa visione: il terreno da cui partire (le rovine, il ponte con il passato, il sistema di valori) e l’energia con la quale costruire (la creatività, laddove la cultura si sposa con l’innovazione, che è poi nient’altro che un’idea di costruzione del domani, e il talento).
I luoghi “tradizionali” della cultura, i monumenti, le rovine, ma anche i musei e le biblioteche, vanno quindi ri-abitati, cioè sollevati dal mero ruolo di testimonianze del passato, per essere lanciati verso una nuova socialità[6]. Cosa significa conservare l’identità di un luogo, di un bene? Significa immobilizzarlo nella sua essenza originaria oppure permettere che questo venga contaminato con altro e che altro contamini[7]? E’ possibile parlare di questi temi con serenità e fuori dalle posizioni pre-costituite, spesso dettate dalla prassi di un Paese in cui troppo spesso il nuovo è stato sinonimo di degrado, condoni edilizi, crescita senza regole etc etc etc.
Questa è la grande scommessa, ed è una scommessa urgente, prima che molti pezzi del nostro Paese – paesaggi, monumenti, luoghi della cultura, piazze, idee – scivolino definitivamente nella polvere o, nel migliore dei casi, si trasformino in grandi parchi a tema, sempre in bilico tra il sacrale e il pittoresco.
Oltre al nostro patrimonio monumentale, sarebbe bello veder animarsi molti musei e luoghi d’arte che oggi, in alcuni casi, assomigliano più a spazi di accumulo che di trasmissione e condivisione del pensiero, stimoli, valori (che è poi, ricordiamoci, il senso della cultura). I musei, ma anche tutti gli altri spazi espositivi, spesso esprimono la propria competitività più con l’architettura, il contenitore, che con il contenuto. Sono luoghi che parlano sempre meno al cittadino contemporaneo, limitandosi a una funzione conservativa, elencativa, nel migliore dei casi sacrale. Quando non ostruito da grandi folle o da un eccessivo accumulo di opere, l’utente si permette, nel Museo, quella vicinanza al divino (che sia il quadro della Kahlo o il manoscritto antico) che oscilla tra la pura estasi (nell’assenza, come spesso in Italia, di efficaci strumenti di conoscenza di supporto all’opera) e la trasmissione di sapere. Ma le occasioni sono poche e i numeri piccoli. La trasmissione del sapere, dunque, assolutamente episodica e limitata.
La cultura continua, infatti, a essere un settore fortemente elitario, una cosa per pochi. E anzi gli spazi a questa dedicati (cinema, teatri, biblioteche, librerie) vanno sparendo da molte aree del paese, strappando un’occasione di crescita e inclusione sociale a un pezzo molto consistente delle nuove generazioni. Eppure se la cultura (un sito archeologico, uno spazio per la musica etc) è un collante, uno strumento identitario per una collettività, spariti i riferimenti di condivisione democratica a quella stessa comunità resterà solo di esprimere la propria identità per “differenza”, per alterità rispetto all’altro da sé[8]. Così si rafforzano i razzismi, le solitudini, la rabbia sociale. Sono oltre quarant’anni che si parla del ruolo della cultura nelle periferie, del rapporto tra cultura e sociale, tra cultura e sviluppo democratico, ma ora sembra si stia facendo un passo indietro. E in questo modo si lasciano le cosiddette “nuove centralità” sempre più sole.
Si tratta di un processo molto lungo e complesso, ma ineludibile. I bisogni di socialità e condivisione, che sono poi speculari alla perdita di centralità del nucleo familiare e, progressivamente, della formazione scolastica, devono trovare risposte anche nella – e attraverso la – offerta culturale. La cultura deve entrare nelle nuove reti di trasmissione dell’identità e del consumo, deve diventare nuovo muretto virtuale sul quale far sedere i nostri figli. Un’occasione per incontrarsi, parlarsi, scambiare idee, fare scelte sul futuro, crescere.
Sempre più, in molti paesi del nord Europa, si sta rivalutando il patrimonio artistico come occasione d’incontro continuo con la cittadinanza, con l’obiettivo di costruire momenti di relazione, dialogo e uso tra cultura e spazi urbani, tra cittadini e patrimonio. Anche da noi i centri di trasmissione del sapere – i monumenti, i musei, i teatri, i cinema, le biblioteche – vanno aperti per divenire luoghi dove si dialoga, anche assieme, in condivisione, con il passato, il presente e il futuro. Luoghi in cui si sperimenta e si costruisce. Laboratori di contemporaneo. Arte, danza, teatro, musica, cinema emergente, letteratura devono essere sostenuti per ridare senso all’antico, diventare risorsa del presente e patrimonio futuro, per una nuova idea di cittadino e cittadinanza.
Le politiche culturali devono anteporre a tutto il resto “la persona”, la sua esperienza, le sue relazioni, laddove il vero ultimo scopo del prodotto culturale è la fruizione, come sottolineano gli interventi europei in materia, in piena coerenza con l’impianto costituzionale italiano (Forte, 2014). Si tratta, quindi, anche di ridistribuire la cultura[9] mentre la ripensiamo, e il pensarla nella sua ridistribuzione diviene un modo per produrre nuove idee, contaminazioni, possibilità di futuro. E diviene anche un modo per fare della cultura un progetto politico “democratico”, che esprima una visione “popolare” della cultura, come strumento per poter modificare il proprio destino, combattere qualsiasi forma di divide e, quindi, dare a tutti gli strumenti per comprendere e modificare lo spazio comune, le regole della collettività.
Riteniamo sia necessario, per una politica culturale pubblica, ripartire dalla necessità di promuovere il desiderio di cultura e al contempo una cultura che generi desideri. Perché si è lasciato che i desideri fossero catalizzati dai gratta e vinci o dalle slot machine. La spinta pubblica in questa direzione significa innanzitutto rimettere la cultura al centro dell’agenda politica. L’urgenza di cultura, accanto a quella di avere città meno degradate, con migliori trasporti urbani etc. è necessaria per ridare al cittadino uno sguardo alto, sovrano del proprio futuro.
L’enfasi sulla diffusione/fruizione (una fruizione attiva, nella linea dei ragionamenti fatti finora), è però bene chiarirlo, rischia di ridurre il valore della cultura a una questione di numeri. In questo senso, è necessario che la centralità su la persona (e quindi di una collettività a rete fatta di relazioni di singoli punti) sia sempre negoziata con una forte attenzione al bene comune. Mantenere entrambi i punti di vista sembra oggi una sintesi necessaria, soprattutto se guardiamo al bene individuale come una necessità imprescindibile di una realizzazione terrena, hic et nunc, e al bene comune come interesse collettivo intergenerazionale (Settis 2012), che comprende cioè anche le generazioni future.
[1] «Al di là del frequente e meccanico ricorso […] a concetti come identità e memoria, i frammenti della città antica manifestano una palese alterità risultando, nella maggior parte dei casi, indecifrabili o persino invisibili» (RICCI A. 2006, Attorno alla nuda pietra, Donzelli, Roma, p. 9)
[2] «Una politica che ricomponga la cesura voluta nella Capitale in epoca fascista laddove si decise di monumentalizzare il patrimonio dando vita a quel percorso di separazione tra i cittadini ed i beni archeologici che ha fatto di questi ultimi tessuto urbano sacralizzato e per questo isolato e frammentato e, dunque, privato di un’idea di futuro. […] Con la negazione di un qualsiasi rapporto con i resti del passato diverso dalla venerazione, con la localizzazione del futuro in un ‘altrove’, si dette per la prima volta una risposta non univoca al rapporto antico-moderno; una risposta che, nei decenni seguiti a quegli eventi, venne portata a Roma fino alle conseguenza più estreme». RICCI A. 2006, Attorno alla nuda pietra, cit., p. 46.
[3] Se andiamo a vedere i budget del Ministero dei beni Culturali e degli Assessorati alla cultura e delle istituzioni correlate, ci accorgiamo che scarsissime sono le risorse dedicate alla valorizzazione. Di default le voci di budget da difendere, soprattutto di un bilancio in decremento, sono quelle indispensabili a mantenere in funzione, aperti, gli spazi culturali (addetti per biglietteria, custodia, etc) e per arginare il decadimento del patrimonio monumentale (conservazione, restauro). Le prime risorse a essere tagliate sono quelle dedicate al contemporaneo, all’estemporaneo, all’innovazione, al cambiamento.
[4] Ricordiamo peraltro che la revisione costituzionale del 2001 ha separato le funzioni di conservazione (all’amministrazione centrale) e valorizzazione (a quelle locali).
[5] «Negare o rimandare tale operazione vuol dire solo lasciare che le future generazioni costruiscano – se più sagge di noi – la loro memoria con quanto resterà da selezioni non controllate e dal disfacimento che il tempo continuerà comunque ad operare. Ma nel frattempo, paghi di questa azione meccanica di accumulo, di questa neutralità deresponsabilizzante, la nostra memoria sarà andata veramente, irrimediabilmente, perduta» RICCI A. 2006, Attorno alla nuda pietra, cit., p. 75.
[6] “Conservation is increasingly geared towards preserving and enhancing a whole cultural landscape rather than an isolated site, and also becoming more people-centred. Old approaches sought to protect heritage by isolating it from daily life. New approaches focus on making it fully part of the local community. Sites are given a second life and meaning that speak to contemporary needs and concerns». EUROPEAN COMMISSION 2014, Communication From The Commission To The European Parliament, The Council, The European Economic And Social Committee And The Committee Of The Regions, Towards an integrated approach to cultural heritage for Europe, online all’indirizzo
http://www.ipex.eu/IPEXL-WEB/dossier/document/COM20140477.doc, p. 5.
[7] Esemplificativo è il congelamento, operato nella Capitale negli anni del dopoguerra, della politica urbanistica di epoca fascista, che ha di fatto confermato la monumentalizzazione del centro storico, dislocando “altrove”, fuori le mura, il futuro della città. La conservazione di «preesistenze considerate concluse nel loro ciclo trasformativo» (RICCI A. 2006, Attorno alla nuda pietra, cit., p. 56) diviene, in questo modo, anche forma di estraneazione e di rimozione di un progetto innovativo di sviluppo urbano. Mentre invece «Nel Codice dei Beni Culturali, che rappresenta un caposaldo […] non è scritto che nulla può essere toccato. In linea di principio, non deve esserci contrapposizione fra archeologia e sviluppo». CARANDINI A. 2012, Il nuovo dell’Italia è nel passato, Intervista a cura di Paolo Conti, Laterza, Bari, p. 21.
[8] «Il valore identitario è il risultato di un ‘apprezzamento’ sociale in quanto deriva dalla percezione che la collettività ha sulla funzione che un bene (tangibile o intangibile) ha avuto nella costruzione della sua storia». VALENTINO P.A. 2012, Testimoni della cultura, «Economia della cultura», 4, p. 514:
[9] «Si tratta, forse, di riflettere allora sulle modalità con cui nei decenni repubblicani che abbiamo alle spalle si siano costituite le attenzioni redistributive, concentrandole prevalentemente nelle dimensioni economiche, trascurando quelle più profonde e strutturali, di tipo culturale» (FORTE P. 2014, Il contemporaneo in Italia, cit., p. 8)
— BIBLIOGRAFIA —
CARANDINI A. 2012, Il nuovo dell’Italia è nel passato, Intervista a cura di Paolo Conti, Laterza, Bari
EUROPEAN COMMISSION 2014, Communication From The Commission To The European Parliament, The Council, The European Economic And Social Committee And The Committee Of The Regions, Towards an integrated approach to cultural heritage for Europe, online all’indirizzo
http://www.ipex.eu/IPEXL-WEB/dossier/document/COM20140477.doc, p. 5.
FORTE P. 2014, Il contemporaneo in Italia, in «Economia della cultura», 1
GALLERANO N. (Ed.) 1995, L’uso pubblico della storia, Franco Angeli, Milano
RICCI A. 2006, Attorno alla nuda pietra, Donzelli, Roma
SETTIS S. 2012, Azione popolare, Einaudi, Torino
STEINER G. 1984, Dopo Babele, Sansoni Editore, Firenze
VALENTINO P.A. 2012, Testimoni della cultura, «Economia della cultura», 4
— Percorsi —
- Modello tridimensionale (vedi visione)
- Progetti di audience development
- Ripensamento delle politiche pubbliche sulla funzione del museo, del patrimonio culturale e, più in generale, dei luoghi della cultura
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